Lotta di classe
All'inizio della Repubblica Romana, i Patrizi (coloro che vantavano discendenza diretta dai Patres fondatori di Roma) formavano, su base ereditaria, l'élite di potere all'interno dello Stato e ad essi era riservata la possibilità di rivestire le magistrature, di governare lo stato e di esercitare il potere giudiziario. La chiusura del gruppo era sottolineata dalla proibizione dei matrimoni con i non-patrizi, che costituivano la classe (numericamente preponderante) dei Plebei, il popolo. Avvenuta la famosa “cacciata dei re”, la classe dirigente dispose inizialmente provvedimenti che sembrarono guadagnare il plebeo alla causa del governo aristocratico: furono diminuiti i dazi nei porti, furono acquistate grandi quantità di grano e la commercializzazione del sale divenne di monopolio dello Stato. Venne addirittura eliminata l’imposta per l’esercizio del diritto di pascolo sui terreni comunali. Viceversa il governo aristocratico ebbe di mira la distruzione delle classi medie (i piccoli proprietari terrieri e i commercianti), per favorire da un lato lo sviluppo di una classe dominante di ricchi possidenti, proprietari di latifondi, e dall’altro la nascita di un proletariato agricoltore (salariati). In effetti, la diminuzione dei dazi nei porti favorì solo il grosso commercio e dunque i capitalisti ma un vantaggio maggiore lo ebbe il capitalista dal metodo di amministrazione delle finanze. Infatti, lo Stato aristocratico decise di appaltare all’esterno le attività di esazione delle imposte indirette e di effettuazione dei pagamenti. Ovvio che questi appalti venivano affidati ai ricchi capitalisti che erano gli unici a poter offrire sufficiente garanzia (reale) di buon andamento delle operazioni. Cambiò anche l’amministrazione finanziaria dei beni comunali (terreni conquistati durante le guerre). I beni dello Stato erano per loro natura privilegio dei cittadini e il plebeo (domiciliatario o cliente), che non era cittadino, poteva avere l’uso del pascolo comunale solo violando il diritto formale., circostanza gravissima perché punita anche con la morte. Cambiò il sistema di distribuzione delle terre conquistate dallo Stato romano durante le sue campagne militari. La consapevolezza della appartenenza ad una unica stirpe, quella latina, emerge dal principio latino per cui le nuove terre strappate al nemico erano di diritto acquisite allo Stato che le distribuiva secondo i bisogni e meriti senza distinzioni di classe. Con la repubblica si lasciò prevalere invece il sistema della occupazione per cui i beni del demanio (conquistati in battaglia) furono lasciati in concessione agli occupanti e ai loro legittimi successori in cambio di un decimo del grano e di un quinto del vino e dell’olio. Ebbene il diritto di occupazione fu riservato ai Patrizi (gli unici a poter ricoprire la carica di ufficiale del comune romano). Così la piccola proprietà fondiaria subì un duplice colpo dalla politica aristocratica repubblicana: perse l’uso dei fondi comunali, e fu interdetta dal diritto di occupazione. Il peso delle gravezze pubbliche fu aumentato per compensare il mancato regolare versamento delle piccole rendite fondiarie da parte dei plebei, classe ovviamente impoverita dalla politica aristocratica. Le grandi possidenze iniziarono a formarsi in questo periodo. La massima parte dei Patrizi era agiata ma naturalmente anche tra i plebei esistevano famiglie ragguardevoli, la cui ricchezza derivava dal lavoro e dal commercio. E poiché la classe plebea costituiva la maggioranza della popolazione romana, era naturale che il primato politico dei patrizi a lungo andare fosse insostenibile. La grettezza e la cecità, privilegio di una vera aristocrazia, non si smentirono a Roma cui non furono risparmiate crisi e rivoluzioni.
La prima secessione: il Monte Sacro
La prima grave crisi fu la migrazione sul monte Sacro da parte dei contadini nel 495 a.C. (= 259 ab Urbe condita). Capitò che i contadini addirittura negarono obbedienza ad un bando militare per la leva necessario per sostenere una nuova guerra, in protesta contro la legge oppressiva ad esclusiva tutela degli interessi dei creditori (capitalisti). Il console Publio Servilio sospese la legge odiosa e ordinò che fossero scarcerati i condannanti dalla legge sui creditori. Allora i contadini accorsero e presero parte alla guerra e alla vittoria. Ritornati dal campo di battaglia il secondo console, Appio Claudio, ripristinò la legge odiata. L’anno seguente (494 a.C., ovvero 260 ab Urbe condita) i contadini si arresero alla suprema autorità del dittatore Manio Valerio, nominato dittatore per far fronte ad una nuova guerra, nobile patrizio stimato dalla stessa plebe. La vittoria accompagnò di nuovo le insegne romane, i vincitori tornarono e il dittatore espose al Senato (Assemblea dei Patrizi) proposte di riforma a tutela del popolo. Il Senato rifiutò qualsiasi riforma. L’esercito allora abbandonò il capitano ed il campo e condotto dai comandanti delle legioni, i tribuni militari, marciò fino alla contrada Crustumeria tra Tevere ed Aniene, dove occupò un colle per accingersi a fondare una nuova città di soli plebei. Il Senato cedette sotto la intermediazione del dittatore. Il popolo da allora chiamò il dittatore Manio Valerio Massimo e il monte occupato fu chiamato Sacro. Da questa rivoluzione incominciata dalla folla e senza spargimento di sangue condotta dal fermo comando dei capitani, i Tribuni della milizia, sorse la decisione di instituire il Tribunato popolare.
I Tribuni della plebe
Cosa riuscì’ ad ottenere il dittatore per la plebe? Una legge alla quale prestarono giuramento tutti i cittadini (costituiti da soli Patrizi) che concesse l’amnistia a tutti i contadini che avevano rotto il giuramento prestato alle insegne. La legge fu deposta in un tempio custodita da due ufficiali scelti dalla plebe: gli “aediles”. Questa legge poneva al fianco dei due consoli patrizi due tribuni plebei eletti da plebei riuniti in curie. Ma quali erano i poteri dei tribuni? Contro l’imperium militare (= dittatori e consoli fuori città) non potevano nulla. L’autorità tribunizia si opponeva all’ordinaria autorità civile esercitata dai consoli in città. In effetti al Tribuno venne concesso il diritto di arrestare l’attività ordinaria mediante annullamento, previa protesta pubblica, di un qualsiasi ordine di qualsiasi magistrato che avesse offeso un plebeo; venne concesso inoltre il diritto di veto ovvero il diritto di far cessare qualsiasi proposta fatta dal magistrato alla cittadinanza (Senato). Ancora il Tribuno poteva chiedere conto ai consoli del loro operato nonché poteva adunare le curie e presiederle.
Coriolano
Altro avvenimento emblematico della lotta di classe è la storia di Gneo Marcio, un nobile patrizio coraggioso che ebbe il nome di Coriolano dalla presa di Corioli. Sotto il consolato di Marco Minucio Augurino e Aulo Sempronio Atratino, nel 491 a.c, Coriolano s'oppose fortemente alla riduzione del prezzo del grano alla plebe, la quale lo prese in forte odio. La situazione era poi resa oltremodo complicata dalla necessità di definire un nuovo trattato (Foedus) con i Latini, compito che fu affidato al console Spurio Cassio, trattato che da lui prese di nome (Foedus Cassianum), e dai preparativi bellici intrapresi dai Volsci, contro cui si decise di intraprendere l'ennesima azione militare, affidandola al console Postumio Cominio. Iniziò la campagna militare contro i Volsci di Anzio, città che venne espugnata, con l’apporto decisivo del giovane Gneo Marcio. Ma la plebe non apprezzò le vittorie, e la contesa non riguardava tanto il prezzo del grano, ma il conflitto tra plebei e patrizi, poichè quest'ultimi non si erano ancora rassegnati all'istituzione dei tribuni della plebe, e cercavano in tutti i modi di contrastarne l'azione. In questo contesto fazioso, Coriolano rappresentava l'ala più oltranzista dei patrizi, che propugnava l'abolizione del tribunato ai plebei, per cui era il più odiato dei patrizi. Alla fine Coriolano fu davvero citato in giudizio dai tribuni della plebe, e a questo punto le versioni di Livio e Plutarco divergono. Secondo Livio, Gneo Marcio rifiutò di andare in giudizio, scegliendo l'esilio volontario presso i Volsci, e per questo motivo fu condannato in contumacia all'esilio a vita. Invece per Plutarco Gneo Marcio fu sottoposto al giudizio del popolo con l'accusa di essersi opposto al ribasso dei prezzi del grano, e per aver distribuito il tesoro di Anzio tra i soldati, invece di consegnarlo all'Erario. Anche per Plutarco, la condanna fu quella dell'esilio a vita. Gneo Marcio scelse di recarsi in esilio nella città di Anzio, ospite di Attio Tullio, eminente personalità tra i Volsci. I due, animati da forti sentimenti di rivincita nei confronti di Roma, iniziarono a tramare affinché tra i Volsci, più volte battuti in scontri campali dall'esercito romano, si sviluppassero nuovamente motivi di risentimento contro i romani, tali da far nascere in questi il desiderio di entrare in guerra contro il potente vicino. Alla fine i Volsci decisero per una nuova guerra contro Roma, ed affidarono a Coriolano e ad Attio Tullio il comando dell'esercito. Coriolano riuscì a saccheggiare la campagna romana, evitando però di attaccare le proprietà dei Patrizi, così da fomentare la discordia tra Plebei e Patrizi. L'espediente ebbe successo, tanto da permettere ai Volsci, di tornare nel proprio territorio, carichi di bottino e senza aver subito alcun attacco dai romani. Quindi Coriolano si accampò a sole cinque miglia dalle mura della città in località Cluvilie, nel 488 a.c. dove fu raggiunto da un'ambasceria composta da cinque ambasciatori. Marco Minucio Augurino, uno dei cinque ex-consoli inviati dal Senato al campo dei Volsci perorò con un lungo discorso la causa di Roma senza farlo desistere dall'intento; anzi i Volsci, sempre guidati dal condottiero romano, presero molte colonie romane, tutte città recentemente sottomesse dai Romani. Poi riprese Lavinio e di lì, raggiungendo la via Latina tramite delle scorciatoie, catturò una dopo l'altra Corbione, Vetelia, Trebio, Labico, Pedo. Infine da Pedo marciò su Roma e si accampò presso le fosse Cluilie, a cinque miglia dalla città Qui, alle porte dell'Urbe al IV miglio della Via Latina, dove si trovava il confine dell'Ager Romanus Antiquus (nei pressi dell'attuale Via del Quadraro), mentre i consoli del 488 a.c., Spurio Nauzio e Sesto Furio, organizzavano le difese della città, venne fermato dalle implorazioni della madre Veturia e della moglie Volumnia,, accorsa con i due figlioletti in braccio, che lo convinsero a desistere dal proprio proposito di distruggere Roma, la patria. La sua gloria militare non cancellò l’alto tradimento dello Stato romano e Coriolano per questo si suicidò.
La lex Publilia
Altro episodio emblematico fu la morte del Tribuno popolare Gneo Genucio, che aveva osato trascinare a giudizio due consolari e che nel giorno destinato all’accusa fu trovato morto nel letto (473 ac. = 281). L’immediata conseguenza di questo misfatto fu la lex Publilia, proposta dal Tribuno popolare Valerone Publilio, che mutò il sistema di elezione delle assemblee popolari, risalente al re e fondatore Romolo, introducendo l’assemblea popolare delle tribù. Fino ad ora la plebe aveva deliberato per curie: quindi in queste assemblee speciali si votava solo per persona, senza distinzione di patrimonio e residenza. Inoltre nel sistema delle curie nelle assemblee popolari votavano anche i clienti delle famiglie gentilizie e ciò permetteva alla classe patrizia di influenzare e talvolta dirigere le assemblee della plebe. Entrambe queste circostanze caddero con la legge de qua che stabilì dovesse votarsi non più per curie ma per quartieri. Per effetto della nuova legge le assemblee della plebe ebbero luogo non più per curie ma per tribù, raggruppamenti sociali su base patrimoniale e residenziale. In queste sezioni votavano solo i plebei possidenti e ciò escludeva i clienti delle famiglie gentilizie. Questa riunione di tribù pertanto era una assemblea del ceto medio indipendente.
Spurio Cassio
Notevole il tentativo di Spurio Cassio per frenare l’onnipotenza economica dei ricchi. Costui era patrizio. Dopo due trionfi, fece nel 486 a.c. la proposta di misurare i beni comunali e in parte appaltarli a pro del pubblico tesoro, in parte dividerli tra i poveri cittadini. Intendeva togliere al Senato la facoltà di disporre dei beni demaniali. L'anno successivo Spurio Cassio fu portato in giudizio con l'accusa di aspirare ai poteri di re; i due accusatori, i questori Cesone Fabio Vibulano e Lucio Valerio Potito, sarebbero poi diventati consoli, rispettivamente nel 484 a.C. e nel 483 a.C., con il sostegno dei patrizi. Processato, Cassio fu quindi condannato e fatto precipitare dai due questori dalla Rupe Tarpea.
La Legge delle XII Tavole
Allora fu fatto un altro tentativo per rimuovere il potere tribunizio. IL tribuno del popolo Gaio Terentilio Arsa propose nell’anno 462 a.c. (=292 ) la nomina di una commissione per la formazione di un codice comune che servisse da norma ai consoli nell’esercizio del potere giudiziario. Il senato rifiutò questa proposta ma accordò l’aumento dei tribuni da quattro a dieci. Nell’anno seguente, l’Aventino boschetto sacro e disabitato, in forza di un plebiscito Icilio, fu diviso tra la classe dei più poveri per fabbricarvi case che i possessori avrebbero potuto conservare e trasmettere agli eredi. La plebe insisteva per avere un codice. Finalmente nel 454 a.c. (=300) si venne ad un accordo: fu decisa la compilazione del codice: a tale scopo dovevano essi scelti in via straordinaria tra le centurie dieci uomini che nel tempo dovevano fungere da supremi magistrati in luogo dei consoli, e a questo potere potevano essere letti non solo patrizi ma anche plebei. Per la prima volta nella storia di Roma, i plebei furono dichiarati eleggibili seppur in via straordinaria ad un ufficio pubblico del comune. Lo scopo del codice era quello di limitare il potere consolare da norme scritte anziché dall’opposizione tribunizia. Patrizi e plebei parvero concordare sulla persuasione che le cose in tale forma di anarchia non potessero durare a lungo e che la continuazione dell’anarchia mettesse in pericolo la res publica. I decemviri portarono il codice che avevano compilato nel 451 a.c. (=303 ) innanzi al popolo che lo accettò. Il codice fu inciso in dieci tavole di rame ed affisso nel foro sulla tribuna dinnanzi alla curia. Sembrando poi necessario un supplemento, si nominarono per l’anno 450 a.c. (=304) nuovi decemviri i quali aggiunsero altre due tavole. Nasce così il primo ed unico codice romano: la Legge delle XII Tavole.